L’animale che dunque sono

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… In che senso della parola “prossimo” (che non è necessariamente quello della tradizione biblica o greco-latina) potrei dire che sono prossimo o presso l’animale, e che lo seguo, e in che ordine di pressione? Essergli nei pressi? Essergli appresso? Essergli appresso nel senso della caccia, dell’addestramento, dell’addomesticamento o essergli appresso nel senso della successione e dell’eredità? In ogni caso, se io vengo appresso a lui, l’animale quindi davanti a me, mi precede (…). L’animale è lì prima di me, è lì presso di me, lì davanti a me – che lo seguo/sono dietro di lui. E dunque, essendo prima di me, eccolo dietro di me. Mi circonda. E dal momento che è lì davanti a me, può certamente farsi guardare, ma – e forse la filosofia lo dimentica, forse essa è proprio questo oblio calcolato – anche lui può guardarmi. Possiede un suo punto di vista su di me. Il punto di vista dell’assolutamente altro, e niente mi ha mai fatto pensare tanto all’alterità assoluta del vicino o del prossimo, quanto i momenti in cui mi vedo visto nudo sotto lo sguardo di un gatto.

da Jaques Derrida, L’animale che dunque sono, 2006

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